Medellín, costruire il futuro

Combattere la mafia e gli squilibri sociali con interventi architettonici e urbanistici è efficace e reale. Questo è quello successo a Medellin, oltre l’Oceano Atlantico, seconda città più pericolosa di tutta la Colombia, città natale di Pablo Escobar. Sull’esempio di Edi Rama a Tirana, un altro grande uomo che poco aveva a che fare con la politica, è riuscito a ricondurre la sua città, in 4 anni, da pericoloso centro urbano a esempio di vivibilità in un contesto radente il Terzo Mondo.

Riqualificazione dei bordi stradali, foto tratta da: http://duttybwoy.wordpress.com

Sergio Fajardo, celebre matematico, sindaco di Medellìn dal 2002 al 2007 ha applicato alla politica un assioma molto chiaro: gli squilibri sociali e la violenza vanno combattuti simultaneamente.

Così  i primi interventi  politici sono stati l’incremento della polizia di quartiere e la costruzione di centri educativi, scuole e biblioteche affidati ai più bravi architetti colombiani e sudamericani e localizzati nelle aree più degradate della città. L’architettura di qualità e gli interventi di sviluppo urbanistico sono stati componenti inscindibili di un nuovo modo di fare politica. Come Rama anche Sergio Fajardo ha utilizzato l’architettura e la politica per creare una nuova pelle della città, potenziando l’esistente senza annullarlo; il tutto ha come fine dare una nuova percezione della città agli abitanti instillando un senso di orgoglio sia a livello locale che globale, consolidando il senso di appartenenza e la partecipazione alla vita politica e sociale.

Alcune tra le opere realizzate rappresentano oggi un punto di riferimento della città, come la nuova biblioteca di Giancarlo Mazzanti: una roccia incastonata in mezzo al barrio di Santo Domingo, noto per lo spaccio di droga.

Un altro intervento che ha contribuito a potenziare la ripresa urbana è la Orquideorama, una struttura di che accoglie la raccolta di orchidee del Giardino Botanico e ospita eventi culturali, caratterizzata da una copertura costituita da esagoni frattali dal profilo ligneo.

Vista dal quartiere Santo Domingo della biblioteca di Giancarlo Mazzanti, foto tratta da: http://www.archiportale.com

Il piano dell’architetto e direttore dei progetti urbani per la città di Medellìn, Alejandro Echeverri, e del sindaco Sergio Farjardo ha mirato altresì a rafforzare il sistema di trasporto pubblico attraverso la costruzione di una funivia  che connette le aree più degradate della città, arroccate sui colli, con il resto della città.  Oggi anche gli abitanti delle baraccopoli in calcestruzzo hanno maggiori opportunità di fruire delle funzioni pubbliche e private del centro urbano.

Ogni progetto, realizzato con la consultazione dei residenti del quartiere, è stato affiancato da puntuali programmi sociali atti a combattere le disuguaglianze profondamente radicate nella città, dall’istruzione per tutti al micro-credito in favore delle piccole imprese.

I programmi sociali di Echeverri e Fajardo hanno inoltre costituito un fattore significativo nel calo della criminalità locale. Secondo le statistiche nazionali, il numero di omicidi commessi in un anno su una popolazione di 100.000 abitanti è sceso da 381 nel 1991 a 29 nel 2006.

“Sia l’esempio di Tirana che quello di Medellìn parlano di un nuovo modo di usare l’architettura come dispositivo cruciale nel fare politica. Gli spazi oggetto della trasformazione sono sempre quelli pubblici: quella architettura  pubblica che oggigiorno sembra quasi sparita a favore dell’incombente speculazione edilizia, ma che invece è l’architettura di tutti e costituisce un fondamentale supporto per ridurre gli squilibri sociali e aumentare la qualità della vita. Gli spazi collettivi “ci dicono che la dimensione pubblica di un’ architettura non sta solo nella sua funzione, ma si gioca sul piano simbolico, sulla sua capacità di veicolare con la sua presenza un messaggio di attenzione e cura verso le comunità locali.” (Stefano Boeri, Abitare n°482 pag.14)

I progetti di riqualificazione ci insegnano che se gli spazi collettivi fossero governati da una prospettiva originale e stimolante, tenendo in conto le richieste dei cittadini, potrebbero diventare veri e propri laboratori di un nuovo modo di fare città e di fare politica.

Come ha scritto Stefano Boeri “Questo nuovo modo di fare politica chiede oggi all’architettura, cioè alla costruzione di luoghi, di ambienti, di paesaggi, di saper fare quello che una politica seria dovrebbe sempre saper fare: costruire visioni del futuro, radicate nel quotidiano presente.”

Rete tranviaria sopraelevata, foto tratta da: http://www.archiportale.com

Cagliari verso un Urban Center. Idee e progetti per via Roma e per la città

Logo del Comitato Urban Center di Cagliari

È nato a Cagliari il comitato per la nascita di un Urban Center, che vuole essere il luogo in cui comuni cittadini e tecnici si confrontano sui progetti che l’amministrazione propone per la città, con l’obiettivo di stimolare la partecipazione, soprattutto dei giovani, contribuendo alla formazione di cittadini responsabili e attenti.

Come primo banco di prova il comitato ha partecipato al convegno “La via Roma – La piazza sul mare”. E nuovamente, dopo la presentazione del progetto del parcheggio e del tunnel sotto via Roma, si è assistito all’esposizione dei “progetti” e alle idee del Comune di Cagliari e della sua maggioranza in tema di pedonalizzazione e mobilità. Un progetto di ampio respiro economico (si è parlato di più di 130 milioni di euro) per ridisegnare il luogo definito come il biglietto da visita per la Cagliari di domani, ma che nasce con uno sguardo tanto corto quanto superficiale come ha fatto pesantemente notare il professor Italo Meloni nel suo intervento.

Parcheggi nella zona di via Roma (slide preparata da CagliariPedonale.it), in media il 20% di quelli attualmente realizzato è vuoto

Come insegnamento per la collettività dal convegno, ci sembra utile riportare i passaggi fondamentali dell’intervento del docente di ingegneria dei trasporti, perché dimostrano quanto possano essere futili le proposte politiche di pianificazione urbana quando non sono sostenute dalle possenti gambe date dall’approfondimento tecnico e da una visione globale chiara che ne indichi la direzione.

“Abbiamo assistito a tanti incontri e la cosa sicura è che non esiste un progetto per la piazza. Esiste un’idea di una piazza.Non si è deciso nemmeno se dovrà essere completamente pedonale, se ci passerà la strada in mezzo e dove passerà. Non è una carenza solo di contenuti, ma è una carenza di metodo: c’è una scarsa analisi delle problematiche e di individuazione di obiettivi condivisi e una vaga strategia politica.

Si parla di questo progetto in modo superficiale.

Manca un’idea strategica condivisa su che cosa vogliamo che sia significativo in questo progetto di piazza sula mare.

Per arrivare a risolvere i problemi di mobilità e pedonalità di Cagliari occorre una combinazione di azioni, non solo infrastrutturali, ma anche amministrative, regolatorie, di comunicazione: progetti isolati e settoriali non risolvono il problema della via Roma.

Non ci sono dei dati concreti sugli scenari attuali e futuri del traffico e dei parcheggi che insistono su questa zona, sui percorsi pedonali di relazione ed aggregazione, se non il conteggio del numero di stalli e del numero di corsie.

Non esiste nemmeno un ragionamento sulla necessità, o meno, di continuare a far passare per quello che vuole essere uno dei luoghi simbolo della città il traffico di attraversamento.

Manca un minimo studio serio del problema

Sono parole dure e circostanziate, che evidenziano come un certo modo di approcciarsi alla città non possa portare alla soluzione dei problemi che i cittadini si trovano a vivere ogni giorno. Non si può far a meno dello studio approfondito e dell’utilizzo di competenze specialistiche per pianificare una realtà complessa come quella urbana.

[terapia urbana] Codice Deontologico dell’Architetto

Condividiamo una  bella descrizione  del codice deontologico per architetti e urbanisti proposta da Ecosistema Urbano e da noi liberamente tradotta.

Terapia urbana - foto tratta da ecosistemaurbano.org

Crediamo che la città sia un organismo dinamico in costante trasformazione. Gli architetti e la maggior parte dei professionisti che operano sulla città, devono tener conto di come il loro lavoro incida sul centro urbano. Come esperti, gli architetti hanno conoscenze che sono tenuti a mettere a disposizione liberamente nelle situazioni critiche.

E’ necessario incidere per moderare l’espansione dello spazio urbano, dando priorità ad ottimizzare, diversificare e rigenerare la città esistente, promuovendo l’uso più efficiente del patrimonio costruito, intensificando e riprogrammando il tessuto urbano.

Consideriamo qualsiasi spazio della città che può essere riattivato tramite una nuova lettura come spazi potenziali e lo sviluppo del suo potenziale come un  nuovo progetto urbano. Gli architetti hanno il dovere di agire quando rilevano uno spazio critico. I cittadini, a prescindere dalla propria formazione, possono partecipare ai diversi processi che l’architetto mette in atto attraverso la terapia urbana.

Un gran numero di interventi urbani, realizzati come agopuntura, permette di risolvere rapidamente situazioni locali senza grandi costi. La somma di questi interventi rende la città più sostenibile e più gradevole per i cittadini. Il benessere delle città si misura dalla qualità e dall’uso dei suoi spazi collettivi.

Al fine di mettere in scena queste buone intenzioni, e utilizzando come base il codice di deontologia medica, offriamo questa versione del codice etico dell’architetto, sulla base dei criteri che stiamo applicando come [ecosistema urbano].

Codice di Deontologia dell’Architetto

Articolo 1. La deontologia dell’architetto è l’insieme di regole e principi etici che devono ispirare e guidare la condotta professionale dell’architetto.

Articolo 2. I doveri imposti dal presente codice vincolano tutti gli architetti nell’esercizio della loro professione, qualunque sia la modalità in cui la praticano.

Articolo 3. La professione di architetto è al servizio della città e della società. Di conseguenza rispettare la città, gli spazi costruiti e gli utenti sono i compiti primari dell’architetto.

Articolo 4. L’architetto deve prendersi cura con la stessa consapevolezza e sollecitudine di tutte le situazioni urbane, senza distinzione di localizzazione, religione, opinione o qualsiasi altra condizione o circostanza collettiva o sociale.

Articolo 5. La lealtà principale dell’architetto è quella che egli deve alla città e il benessere di questa deve avere la precedenza su ogni altra convenienza.

Articolo 6. L’architetto non pregiudicherà mai intenzionalmente la città né la servirà in maniera negligente; ed eviterà qualsiasi ritardo ingiustificato nell’assisterla.

Articolo 7. Ogni architetto, qualunque sia la sua specialità o modalità di lavoro, dovrebbe fornire aiuto alla città in caso di emergenza.

Articolo 8. L’architetto deve essere consapevole dei propri doveri professionali nei confronti della città. Egli è tenuto a garantire la maggiore efficacia del proprio lavoro e un rendimento ottimale dei mezzi che la società mette a sua disposizione.




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L’anima di una città, Franco La Cecla

…y ventana  y ventana y ventana y
ventana y ventana y otra puerta otra
puerta otra puerta otra puerta.
Hasta el duro infinito moderno
con su infierno de fuego cuadrado,
pues la patria della geometria
sustituye a la patria del hombre.
Pablo Neruda

I versi che Pablo Neruda ha dedicato all’amata Valparaiso in Cile raccontano la differenza tra la città abitata dagli uomini, dove le porte e le finestre sono una festa di confusione e di colore, e la città fatta dal fuoco quadrato della geometria, la città squadrata della dura modernità. Questi versi possono servire come incipit a un lavoro sulla Barcellona della gente e una Barcellona degli urbanisti. La vocazione mediterranea di Barcellona, il grande teatro della socialità e degli scambi che qui si è costituito nei secoli, fa sì che si possa pensare a un equilibrio tra la Barcellona vissuta e quella pensata. Un equilibrio possibile se anzitutto si dà molta dignità al modo in cui la gente ha costruito la propria città e il proprio quartiere, con quel minuto e intenso lavoro che si chiama abitare. Lo diceva anche William Shakespeare molto tempo fa: “What are cities but people?”, “Che altro sono le città, se non persone?”. Una città è anzitutto una grande convivenza di un insieme eterogeneo di persone, parte – una parte piccola – delle quali si conoscono e gran parte delle quali non si conoscono affatto.

Un insieme di case e di palazzi, i più bei monumenti e le migliori architetture, i parchi meglio organizzati e i viali riccamente alberati non costituiscono una città, ma un semplice scheletro dentro cui non c’è vita. Sono le persone a dare l’anima a una città, a conferirle il carattere inconfondibile, a riempire di energia e di voci le strade e le ramblas, a illuminare i più anonimi condomini e le strade più trafficate.

un rosso e un blù, foto di tekenen
El Forat de la Vergonya a Barcellona, foto di Tekenen tratta da Flickr.com

È anche vero però che una città influisce sulle persone che la abitano, che le piazze, le case, le strade hanno un effetto sul modo in cui la gente vive, si incontra, e che esse finiscono per far parte dell’identità delle persone , che spesso le persone finiscono per assomigliare alla propria città. Un grande scrittore siciliano, Elio Vittorini, diceva in un romanzo sulla sua terra, Le città del mondo, che città belle producono “gente bella”, ma città brutte producono pericolosamente “gente brutta”. Belle strade o brutte architetture, palazzoni disumani o magnifici sentieri in mezzo ai monumenti sono in grado di determinare una convivenza buona o cattiva, una maggiore tolleranza tra le persone o invece conflitti e tensioni.

Però, c’è qui un però, gli abitanti possono sempre investire tanta energia in un quartiere o in una zona da trasformare un luogo poco gradevole in n mondo pieno di vita e di varietà. L’attività paziente dell’abitare è in grado, con il passar del tempo, di rendere vivibili anche i luoghi più selvaggi e le periferie più brutte. Insomma all’affermazione precedente, a proposito dell’influenza reciproca tra città e abitanti, occorre sempre aggiungere la considerazione che gli abitanti riescono ad addomesticare, con rare eccezioni, in un modo o nell’altro, con più o meno fatica, il posto in cui abitano.

[tratto da “Contro l’architettura”, di Franco La Cecla]

TIRANA, ARCOBALENO DALL’EST

Cagliari è stata spesso considerata capitale del Mediterraneo se pur il suo dinamismo architettonico urbanistico sembra restare statico negli anni.

Grandi nomi e grandi progetti sono stati proposti per raggiungere i tanto auspicati obiettivi di integrazione sociale tra il quartiere di Sant’Elia e Cagliari. Concorsi, commissioni, progettazione partecipata, lavori iniziati e mai conclusi hanno da tempo afflitto gli abitanti del quartiere, simbolo del degrado e dell’isolamento prodotto dagli insediamenti di edilizia economica e popolare degli anni ‘70.

Dall’Albania arriva un vento di innovazione, una nuova percezione dell’architettura all’interno delle strategie politiche. La città di Tirana è riletta attraverso una prospettiva originale e coraggiosa da un sindaco che prima di essere un politico è un’artista affermato.

Vagabond Journey.com
Vagabond Journey.com

Dopo anni di caos edilizio, dovuto alla troppo veloce urbanizzazione della capitale, Tirana è oggi investita da un processo di regolazione urbanistica gestito dal quarantacinquenne sindaco Edi Rama. Nonostante il passato dittatoriale e la povertà incombente sulla nazione, il giovane sindaco ha saputo ridare luce al grigiore cittadino.

Primo tra tutti gli interventi è stato l’applicazione del piano del colore. Per rivitalizzare il tedio dei palazzoni comunisti Rama ha pensato ad una nuova superficie colorata. Dal grigio cemento le facciate degli edifici dei quartieri lungo i canali sono state trasformate in una passeggiata verde, gialla e viola con alberi e siepi scolpiti. Un intervento proposto e gestito interamente dal sindaco, mirato soprattutto a creare una nuova percezione collettiva del contesto esistente, invece di iniziare completamente da capo la ricostruzione della città. L’azione decisionale del sindaco rappresenta un processo forzato dall’alto al basso, in quanto la scelta dei colori è stata esclusivamente opera della vena artistica del sindaco. Una scelta attuata senza passare attraverso gli intricati percorsi della burocrazia locale. Decisione che può sembrare antidemocratica ma che invece ha promosso il dialogo e la partecipazione delle comunità nel processo decisionale. Infatti in poche settimane nelle strade, nelle piazze, si è cominciato a discutere sul tipo di colore da usare, sull’immagine della città e su come esporre il lato pubblico delle case e della vita che vi scorre all’interno. Così l’arcobaleno di colori proposto dal sindaco si è esteso a molti altri edifici coinvolgendo nuovi artisti e architetti di fama internazionale.

tratto da Vagabond Journey.com
tratto da Vagabond Journey.com

La politica scelta dal sindaco Edi mira ad usare l’architettura come mezzo comunicativo per ridurre gli squilibri sociali e aumentare la qualità della vita. L’architettura quindi si veste di una funzione simbolica e politica: gli spazi pubblici delle città sono non solo oggetto di sperimentazioni artistiche ma contribuiscono anche alla creazione di un nuovo modo di fare politica.

tratto da Vagabond Journey.com
tratto da Vagabond Journey.com

Il piano del colore è stato lo spunto anche per altri interventi di rinnovamento portati avanti da Rama.

Tra questi è presente “ I love to play”, la proposta di creazione di nuovi spazi pubblici da parte del comune. I palazzoni socialisti costruiti su 4 piani distanziano tra loro una ventina di metri. Gli interstizi tra questi blocchi sono stati occupati col tempo abusivamente per usi domestici e quindi tolti alla collettività. La comunità si trovava ad utilizzare come spazi pubblici esclusivamente le infrastrutture cittadine, le strade in cui la maggior parte dei bambini si incontra per giocare.

Il progetto mira a migliorare la qualità di vita di ogni giovane cittadino provvedendo alla creazione di piccoli spazi pubblici all’interno dei singoli quartieri per dare uno spazio sicuro in cui far crescere  le nuove generazioni senza i pericoli delle strade.

La strategia operativa è stata quella di individuare degli spazi adatti alla creazione di mini campi sportivi. Conseguentemente alla scelta del luogo di intervento si è deciso di convertire gli spazi tra i muri dei blocchi socialisti come campi per attività sportive e di aggregazione sociale. La proposta è iniziata dalla piccola scala, da un solo quartiere e questo ha costituito l’esempio guida per tutti gli altri quartieri della capitale.

Accanto al piano del colore e alla creazione di nuovi spazi pubblici, una radicale risistemazione del centro cittadino ha visto la demolizione di milleduecento edifici abusivi sorti durante il periodo post-comunista. Al posto di chioschi, baracche e costruzioni di sussistenza ora si estende un parco verde a due passi da Piazza Skanderbeg.

I palazzi, d’ inconfondibile architettura razionalista, edificati dagli italiani, sono tornati a risplendere. E nuovi palazzi sono sorti, con vetrate e ampie terrazze insieme a locali trendy, café Internet e negozi di lusso. La rinascita è in atto e evidente a tutti.

Il percorso è appena iniziato e i cambiamenti richiesti sono ancora molti ma i primi passi sono sotto gli occhi di tutti. Il rinnovamento non sarebbe potuto iniziare se non dall’alto tramite una presa di posizione decisa e in apparenza anti-democratica. In situazioni di caos edilizio e di squilibrio sociale l’esempio dato  autoritariamente dall’alto può scatenare la reazione dal basso e quindi coinvolgere la popolazione nella voglia di rinnovamento. La percezione della città può essere così trasformata e i progetti di riqualificazione visti con favore anche da parte dei ceti più bassi.


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La città di Zaira

Ci sono cose che sappiamo da tutta una vita. Cose che conosciamo alla perfezione da quanti racconti abbiamo ascoltato a riguardo e da quanti libri e siti abbiamo consultato per comprenderle. Succede talvolta che di queste cose diventiamo anche esperti, per la mole di informazioni che riusciamo a racimolare su di esse. Ma fino a quando una di queste cose non ci travolge in prima persona non ci rendiamo conto di quanto insensata fosse la nostra conoscenza, non sbagliata o meno importante e valida, semplicemente non basata sui nostri sensi.

Ed il momento in cui ci rendiamo conto di ciò è una esperienza unica, di una forza che non lascia il dubbio sulla sua sensatezza. Tale momento può essere il risultato di una esperienza maturata nel tempo o può durare l’istante di un battito di ciglia, ma sempre è una sensazione sconvolgente.

È il passare dal “sapere” al “sentire”.

A volte i grandi artisti ci aiutano ad effettuare questo passaggio, con le loro opere che riescono a farci scorgere un frammento, un barlume di quella realtà che l’esperienza riesce a spalancare.

Un grande scrittore del novecento tentò, con una incredibile sensibilità, di raccontare le nostre città, e con questo brano ci apre un acuto spiraglio su uno dei valori chiave delle città europee, e in particolare dei centri storici italiani.

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni.

Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so che già sarebbe come non dirti nulla.

Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesavano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo.

Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata.

Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira.

Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.

Italo Calvino

da Le città invisibili

Uno dei valori più emblematici delle nostre città è infatti la loro storia.

Può sembrare banale, un luogo comune sentito mille volte e un dato di fatto che conosciamo alla perfezione e che (ovviamente) condividiamo. Però finchè non ci capita di porre attenzione alle nostre passeggiate per uno qualsiasi dei nostri centri storici non riusciamo ad essere sinceramente consapevoli di questa caratteristica (limite/opportunità) delle nostre città. L’emozione di calpestare i passi della storia può capitare in tanti luoghi simbolo degli avvenimenti cruciali per l’umanità. Ma toccare con mano e vivere le pietre che questa storia hanno accompagnato è un privilegio che può provare solo chi vive in una società che nei secoli ha considerato la memoria un valore pregnante della sua identità. Le pietre dei piccoli e grandi centri storici italiani sono ricche di milioni di storie, da tanti considerate minori, ma che sono l’essenza della nostra cultura e ne racchiudono la ricchezza. È importante non dimenticarlo e cercare di ricordare queste storie, che sono le storie di chi ci ha preceduto e ha formato l’ambiente in cui viviamo.

Il grado di resilienza dei nostri centri storici pare elevatissima: le generazioni passano, le esigenze cambiano, e i luoghi si adattano alle nuove funzioni, ma le pietre restano con il loro bagaglio di saggezza e memorie. Venezia docet.

Conservare i centri storici è una sfida che l’architettura e l’urbanistica italiana hanno lanciato da tempo; è una scommessa su cui ancora vale la pena puntare nella società contemporanea?